Con il passare dei giorni i ricordi arrivano con sempre più intensità e frequenza. Il tempo di adesso si introduce a forza nel tempo di prima creando un problema di accesso e coesistenza, obbligando quelli che si erano creati uno spazio a ridurlo o a spostarsi, talvolta ad uscire. Gli esclusi non riescono quasi mai a rientrare, mortificati dalla frustrazione e dalla fragilità della loro permanenza. A mano a mano che si avvicina il momento il tempo di ora prende il sopravvento, occupando fittamente uno spazio vuoto di storie e di memorie e creando un ingannevole ricordo fatto dalla ripetizione di se stesso.
Anche i volti si affannano tutti nella stessa direzione, sovrapponendosi e confondendosi in una maschera cangiante che a tratti riflette i nostri stessi occhi mentre la osserviamo in un gesto di condivisione e di superamento della nostra solitudine. In quegli istanti i loro ricordi diventiamo noi, che ci leggiamo nei loro sguardi e scopriamo di averne a nostra volta.
In passato andavamo in Calabria con la famiglia una o due volte l’anno, sempre durante l’estate e qualche volta anche durante le feste di dicembre. Il viaggio di per sé aveva qualcosa di epico, perché nei primi anni l’autostrada non era ancora finita e da Napoli in giù si faceva la statale 18, la cui tortuosa bellezza ha forse stimolato le mie ossessioni su tempo, dimensione e complessità.
L’ultima volta che siamo andati d’inverno ero già all’università, perché ricordo che occupavo tutto il mio tempo tra la preparazione degli esami di febbraio e lo studio del contrabbasso. Come a casa, strutturavo il tempo a mia disposizione organizzandolo modularmente in gruppi di cellule di quindici minuti. Era come se al di sotto di quella soglia il tempo non avesse nessuna sostanza, perdendo realtà e struttura. Anche i momenti di riposo erano fatti da raggruppamenti di blocchi di quindici minuti, persino nella lunga pausa che comprendeva il sonno notturno. La colazione, il pranzo, la cena, le visite al gabinetto, erano fatte di quei mattoni che si univano per generare un numero intero.
Se le permanenze estive erano abbastanza lunghe da permettere una sostituzione dell’universo abituale con quello provvisorio, le trasferte invernali si accompagnavano a un senso di estraniamento, anche perché le giornate corte e il freddo umido rendevano meno poetico il paesaggio nobilitato in altri solstizi da sabbia rovente, mare azzurro e palme agitate dal vento. Come sempre era fondamentale scegliere il giusto rapporto di scala nell’interazione con la realtà esterna, una visione troppo ravvicinata avrebbe messo in risalto l’abbandono, le promesse non mantenute di un riscatto mancato, la feroce illusione tenuta in vita dalla condivisione complice e necessaria. Ma anche uno sguardo eccessivamente ampio non avrebbe permesso di immaginare gli oggetti della finzione, il cui nome veniva pronunciato, ripetuto, ascoltato, ignorato e maledetto fino a farlo appartenere a una dimensione da abbandonare per passare a una nuova non ancora satura di oggettività.
A poche decine di minuti dalle spiagge che fino a tre mesi prima ospitavano qualche ombrellone si trovava una propaggine di Aspromonte in cui fantasiosi impianti di risalita, frutto di una sognante immaginazione, permettevano di scalare una cima il cui nome ricordava il vento del sud che in pochi minuti poteva far dimenticare che la neve fosse mai scesa su quelle pendici da cui si gode la vista delle isole Eolie.
Per me quell’anno l’orizzonte della sopravvivenza si definì come l’assoluta necessità di riuscire a sciare durante i giorni di vacanza. Iniziarono allora le misurazioni di temperatura, pressione e umidità sulla spiaggia deserta a cento metri da casa, la lettura di previsioni meteorologiche per la zona dello stretto, la ricerca del materiale necessario per realizzare l’attività agognata.
Non ricordo se riuscii nell’intento. Ricordo che misi in croce mio padre, rovinandogli probabilmente quei pochi giorni passati nella sua città. Conservo immagini di un grande poggio brullo, battuto dal vento caldo e umido e da cui si poteva soltanto immaginare il mare, ma non potrei dire se appartengano a ricordi reali o se siano il prodotto della mia immaginazione in quei giorni di febbre. Ma è certo che nel viaggio di rientro verso casa fummo colti da una bufera di neve nel punto più alto dell’appennino, e scendemmo tutti dalla macchina per saltare nella neve appena caduta e tirarci delle palle di neve. Ricordo che avevo addosso un loden grigio che detestavo e un cappello da baseball arancione, leggero e assolutamente inadatto alla situazione.
I mattoni hanno formato un numero intero, uno di quelli affascinanti e pieni di significato. Le sorelle Reitano aprono ancora una volta le finestre di lamiera con i prezzi di gelati di estati mai vissute e ancora presenti.
Il telefono suona, e per rispondere lascio il salmone appena preso dallo scaffale. Marley, stanco di aspettare, viene giù in strada a cercarmi facendo crepitare le scarpe appena risuolate sulla neve dura. Le signore del quinto piano scendono le scale infinite per portare un dolce che non mangeremo, senza trattenersi per la fretta di tornare su e finire il presepe i cui animali e pastorelli nel frattempo si sono allontanati gli uni dagli altri per far sì che il passaggio della linea li trovi in posizioni e atteggiamenti consueti. La bambina apre la mano e lascia finalmente andare il pesce, e senza tirare fuori la testa guarda ancora una volta la transizione tra acqua e cielo cui non aveva smesso di pensare. Raccolgo da terra i vetri della bottiglia, senza ricordare dove ho lasciato la macchina. Allora il pozzo trova finalmente la sua fine e Alice può smettere di cadere, si volta, afferra la mano della sorella e tirandola con sé verso il buco le dice senza guardarla, ho fatto un sogno così curioso!
Veramente bello…… complimenti!!!!!
Giuliana
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