Racconto di Natale 2020

Il tempo al tempo della pandemia

Quando alla fine la pandemia passò ci riversammo in strada come un liquido non costretto da alcun ostacolo, distribuendoci in ogni spazio che ci potesse accogliere più secondo le leggi della statistica che per uno scopo preciso. All’inizio era prevalso lo stupore di trovarci di fronte a un mondo più definito e luminoso di come lo ricordavamo, ma subito un’altra incredulità si era dipinta sui nostri volti, quella di ritrovarci inspiegabilmente più giovani di prima.

Durante la quarantena c’era stato un movimento nel fluire del tempo e non era mancato chi, non senza vergogna e solo agli amici più stretti, aveva confessato di trovare in quella situazione l’opportunità per recuperare un ritmo di vita perduto, il contatto con persone dimenticate dietro le urgenze, riprendere progetti momentaneamente accantonati e che avevano creato in noi piccole crepe che c’eravamo illusi di controllare, ma che lentamente si erano unite per scolpire la maschera del sacrificio necessario.

Per chi si occupava dei contagiati le ore si erano dilatate, espandendosi nelle tute e dietro le maschere senza riuscire a tornare tra le mura e gli sguardi di sempre. Ciò aveva portato a un’estrema semplificazione della percezione temporale, scandita adesso solo dall’alternanza rigida di due scenari irreali. Ognuno di loro intuiva la relazione tra perdita di percezione della complessità e il distanziarsi degli eventi, accettandola pazientemente.
Questo processo era più estremo in alcuni casi. Allora la viscosità del tempo si faceva infinita, e la complessità si perdeva al punto da non poter più definire il suo significato con certezza.

Intanto, nelle case delle persone che non potevano lasciarle la complessità aumentava impercettibilmente, e non c’era giorno in cui non si scoprisse una luce nuova, un dettaglio dimenticato, o non si sentisse la necessità di cambiare il nome di un oggetto o l’uso di una parola. Il tempo non mancava mai come se i giorni, le ore e i minuti persi da alcuni si andassero riversando nelle vite di altri per un principio di conservazione alla ricerca un equilibrio giusto e involontario, come se le due cose possano mai esser distinte.
Quando il Natale era giunto si era fatta fatica a posizionarlo come le altre volte, tanto il contenitore e l’oggetto erano incerti sul loro ruolo e avevano perso forme e dimensioni abituali.

Ero vicino a un centro commerciale cercando di regolare la distanza tra gli eventi, quando notai un padre che camminava lungo una discesa con in braccio un bambino. Questo era biondo, di circa 3 anni, e teneva gli occhi fissi su un punto davanti a sé. L’intensità con la quale guardava il suo obiettivo mi colpì a tal punto da non accorgermi subito di essere io.

L’uomo scendeva a velocità costante, mentre il bambino ruotava lentamente la testa per tenermi sempre nel suo sguardo.  Anche dopo avermi superato continuava a girare il volto e a ruotare il corpicino tra le braccia del padre, dato che ormai ero alle loro spalle. A mano a mano che si avvicinavano a negozi mi resi conto di aspettarmi che il bimbo si agitasse nell’attraversare le porte scorrevoli, e solo quando vidi i suoi occhi scomparire nel buio della transizione capii che il bambino sapeva di star guardando sé stesso.

Ora penso che quell’episodio contenesse la spiegazione dello straordinario evento cui stiamo assistendo adesso. L’euforia di riconoscere a stento gli amici nel loro nuovo aspetto è adombrata solo dal timore che noi potremmo essere esclusi da tale miracolo, ed è forse per questo che non indaghiamo lo stupore nello sguardo altrui, e fuggiamo da ogni bambino nel quale potremmo trovare noi stessi.

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