L’Infinito

Le sorelle Reitano uscirono dalla porta del ristorante, scesero i pochi scalini che le separavano dalla strada, e senza curarsi del caldo delle due del pomeriggio si diressero verso il chiosco di legno e ondulati che si trovava a pochi metri dall’inizio della spiaggia. Sollevarono le finestre che si aprivano verso l’alto, mostrando due rettangoli di lamiera con le immagini e i prezzi di gelati che all’inizio della stagione avevano inchiodato dall’interno ma non subito nella giusta posizione,  così che la prima volta si erano trovate con le scritte e i disegni messi al contrario.

Sedute una accanto all’altra nei loro vestiti neri, i capelli ancora scuri raccolti nella crocchia e le teste inclinate dallo stesso lato, sembravano non curarsi dell’età che avevano indossato già molto tempo fa, creando un ridicolo e involontario contrasto con i colori delle mostre dei gelati dche rappresentavano un tardivo riscatto delle loro adolescenze lontane e mai vissute, tra il rumore inavvicinabile del mare, le grida degli sconosciuti, i colori di quel paesaggio che per tutti era di gioia e per loro sapeva di inverno e di solitudine.

L’unica attrazione del chiosco era un flipper elettrico a tre palle. Una partita cinquanta lire, cento lire due partite. Due partite non era solo il doppio di una. Camminare verso il chiosco senza sentire i piedi bruciare sulla sabbia, controllando senza sosta con le dita il diametro incontestabilmente più grande della moneta, voleva dire cominciare una partita sapendo che ce ne sarebbe stata un’altra, significava veder scendere in buca la seconda palla senza sentire la mano che tremava nel tirare la terza, sapere che la parola fine non sarebbe stata una vera fine e che sarebbe bastato spingere un bottone per far ricominciare tutto, le luci, i suoni, il movimento, l’attesa. Ogni tanto, ma solo raramente, la palla sembrava non ubbidire alle leggi della gravità e iniziava a rimbalzare ripetutamente tra le molle e gli elastici  della parte alta del flipper dove, grazie forse alla particolare densità dell’aria al di sotto del vetro rovente, accumulava punti e partite supplementari davanti ai nostri occhi riconoscenti e increduli. In quei pomeriggi eterni, cento lire due partite rappresentava la forma più perfetta di immaginare l’infinito.

Apro gli occhi, e le sorelle Reitano spariscono. Il chiosco non c’è più, nemmeno le mostre con i gelati. Vedo il ristorante, con le finestre chiuse e i vetri rotti, e la scritta a lettere celesti sui quadrati bianchi che dice “Ristorante Reitano”. Il lungomare si è coperto di cemento e sono spuntate palme e lampioni, promesse di un futuro mai arrivato e già passato.  Quelli che giocavano con me sono diventati i genitori e i nonni di loro stessi, cresciuti all’improvviso dentro la loro faccia di bambini. Chiudo gli occhi, e il chiosco riprende il suo posto  a delimitare con rassicurante precisione la fine della strada e l’inizio della sabbia. Le sorelle Reitano mi guardano con condiscendenza, mentre il loro sorriso obliquo scopre una fila di denti gialli sotto il labbro coperto da nei e da una peluria antichissima. Allora vedo il suono muoversi nella luce immobile di fine agosto, attraversare la strada e scuotere le sorelle dal loro sonno vigile, e da lontano mi sento dire con una voce che riconosco mia, signora Reitano, per l’amor di Dio, una gazzosa al caffè.

                                                                                                                                                  25/6/2011

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