Il presepe spagnolo
Quell’anno, poco prima di Natale, era capitata una registrazione in una piccola città di provincia della Spagna. Il cielo, mai solcato da alcuna nuvola e sempre di un azzurro pallido, oscillava tra certe mattine di ottobre e il ricordo di freddi tramonti primaverili, lasciandoci in uno stato d’incertezza mista a una vaga nostalgia.
La chiesa non era riscaldata, e l’unico rifugio risultava essere la piccola stanza dell’ingegnere del suono. Situata su un piano rialzato e accessibile solo da una scala a chiocciola di legno, offriva un breve e necessario conforto grazie a una stufa elettrica che, posta vicino alle gambe del fonico, riusciva a irradiare un certo calore in tutto l’ambiente.
Tale stanzetta era presto divenuta meta di tutti i partecipanti alla registrazione che, con una certa alternanza, si affrettavano con solerzia ad ascoltare le prese di ogni singola traccia, cosa solitamente normale per il direttore o i solisti, ma certo non per strumentisti che difficilmente avrebbero seppur ascoltato il cd una volta uscito.
Su un tavolino di legno nell’angolo a destra dell’ingegnere era allestito un presepe, unico segno di un Natale che cercava una sua collocazione tra le bizzarrie della stagione incerta. La prima volta che ero salito avevo degnato il presepe appena di uno sguardo, ma già alla seconda visita, alla ricerca di un motivo che la giustificasse e allo stesso tempo nascondesse il totale disinteresse per ciò che usciva dagli altoparlanti, avevo cominciato a osservarlo nei minimi dettagli: i pastori, gli angioletti, le pecorelle, e via via verso la mangiatoia, i Re Magi, Giuseppe, Maria, il bue, l’asinello e il bambino Gesù, che sorprendentemente già irradiava dalla povera culla tozzi raggi di luce quando mancavano diversi giorni alla data prevista per la sua nascita.
Le ore erano molte e lunghe, e le ascese della scala già non si contavano. Verso il finire della prima sera, avendo ormai perso interesse nella statica rappresentazione e non trovandone alcuno nella riproduzione di ciò che veniva dal basso, mi venne l’impulso di mettere mano alla composizione sul tavolino, e senza farmi notare spostai alcune figure.
Da qual momento, non c’era salita che non si accompagnasse a qualche mutamento nella scena, e i partecipanti, prima isolati e sperduti, lentamente iniziarono a interagire tra loro, scambiando adesso una parola, ora condividendo un tratto di strada, oppure aiutandosi reciprocamente a portare un otre o a guidare un disordinato gregge di pecore.
Anche gli animali erano coinvolti in questo slancio aggregativo. L’oca che prima barcollava senza una direzione ora seguiva due maialini molto convinti di dove bisognasse andare, le galline, all’inizio disperse, si erano raccolte insieme sorprendendosi di trovarsi così numerose, il dromedario, confondendosi lui stesso con il cammello, si sentiva di colpo meno solo, e l’asino, curvo sotto il peso delle sporte piene di un carico mai compreso si affrettava per riunirsi con il fortunato fratello accovacciato in quel luogo riparato e così pieno di luce, calore, e attenzione.
All’inizio nessuno tra i frequentatori della stanza si era accorto dei cambiamenti, spinti com’erano da ragioni di sopravvivenza in quel luogo piccolo e poco illuminato. Ma poi la noia o il bisogno di un accadimento li avevano costretti a notare alcune anomalie nella sovrapposizione cronologica delle loro memorie visive, e lentamente si erano trovati ad avvicinarsi in ordine sparso al tavolino per fissare una configurazione che infallibilmente avrebbero trovato mutata alla loro successiva salita. Senza confidarsi con nessuno, ognuno di loro aspettava adesso la fine di una presa per correre di sopra e scoprire il cambiamento, sulla cui origine nessuno si interrogava. L’interesse cominciò ad aumentare quando iniziarono a notare che le variazioni non erano casuali, ma sembravano seguire una velata e sempre più decisa direzione. Il bisogno di contatto non pareva più un semplice amore per la compagnia, ma sembrava anelare a una vicinanza sempre più fisica e appassionata che portava alla nascita di coppie e gruppi numerosi diversamente assortiti ma sempre guidati da una sincera e profonda attrazione reciproca.
Nessuno si era accorto quando il primo giorno di registrazione era finito, e di come la sera si fosse disciolta nel mattino seguente. I giorni smisero di essere contati e di susseguirsi nell’ordine consueto, e se l’unico evento che scandiva lo scorrere del tempo era la ripetizione delle ascese della scaletta, era l’evolversi delle combinazioni che assicurava la necessaria direzione temporale. In più, con l’andare del tempo (qualunque cosa ciò significasse), le cose sul tavolino si erano assai complicate, e se fino ad un certo punto le mescolanze e gli accostamenti erano rimasti nell’ambito delle cose possibili e congruenti, adesso la situazione iniziava a sfuggire a ogni previsione al punto da generare preoccupazione e un certo nervosismo, nonché un’innaturale ilarità tra i presenti. Un maialino si trovava ora incredibilmente sul tetto della mangiatoia vicino all’angelo, alcuni pastorelli avevano smesso di dialogare e correvano dietro a un gruppo di papere molto eccitate, e nessuno voleva chiedersi cosa stesse succedendo in fondo al buio del pozzo, il cui secchiello non era più visibile e la cui corda era tutta srotolata.
Una cosa però era evidente a tutti gli osservatori, divenuti nel frattempo insensibili a qualsiasi esigenza termica: ogni personaggio sul terreno di cartapesta sembrava profondamente felice e appagato, molto più di come non fosse stato prima. Se tornavano con il pensiero al presepe che credevano di aver visto qualche tempo fa, adesso gli sembrava davvero poca cosa, al punto di immaginare di non averlo mai nemmeno guardato. Questo era il primo momento in cui sentivano di provare qualcosa in comune, ed erano confortati da questo pensiero. Quando alla fine erano scesi dalla scala si erano sentiti come un’unica cosa, una squadra, un’orchestra forse, e non vedevano l’ora di tornare di sopra insieme per scoprire nuove meraviglie e nuove felicità.
Ma alla presa successiva, che stava durando molto più di tutte le altre, un forte rumore di passi coprì il volume della musica, tanto da far imprecare ad alta voce il fonico e interrompere di colpo la registrazione. Il parroco della chiesa, la cui scontata presenza non era stata presa in considerazione da nessuno, attraversava a gran passi la navata dirigendosi energicamente verso l’amata scaletta a chiocciola. Un impulso di sdegno e protezione scosse tutta la compagine, che nell’inutile tentativo di precedere il prete non riuscì di fatto a muoversi di un metro. Nel lunghissimo silenzio che seguì, non interrotto nemmeno dall’atteso dialogo tra il parroco e l’ingegnere, tutti sentirono che qualcosa era successo.
Quando il fonico chiese di riprendere la registrazione, era chiaro a chiunque che il prete non era ridisceso dalla scaletta. Tuttavia nessuno si sorprese, una volta terminata la traccia, di non trovarlo nella stanza, e nessuno ebbe bisogno di rivolgere un’occhiata al tavolino all’angolo per sapere che tutto era come la prima volta che erano saliti. Non vennero scambiati sguardi, né parole, né gesti. Ognuno sapeva dentro di sé che la registrazione era finita, e che quel Natale stava finalmente arrivando.