Da bambina non mi piaceva la scuola. Era triste e senza amore, non c’era luce, movimento, emozione, futuro. L’arrivo delle feste scandiva un tempo molle e senza attesa, imitato in scala minore dagli spostamenti verso casa. Una cosa spingeva i miei passi al mattino e li appesantiva al ritorno. Nella pausa, lontana dai compagni, avevo cominciato a esplorare l’istituto, che immaginavo infinito ed esotico.
La scoperta di ripetizioni identiche di spazi amorfi non mi faceva desistere, ma al contrario mi guidava verso un’immagine via via più riconoscibile al crescere della certezza di trovarla. Questi percorsi esigevano uno spazio sempre maggiore dell’intervallo, arrivando presto a occupare tutta la giornata. Quando l’idea si fece definita e reale, finalmente la trovai. Era completamente diversa da quella vista nelle molteplici assenze, quindi capii che era vera.
Era una porta bianca a due ante con piccole vetrate nella parte superiore che non lasciavano vedere all’interno, unica porta in un piano deserto. Appoggiai la mano sulla maniglia e la spinsi. Nella quasi oscurità c’era una suora vecchissima e immobile, seduta vicino a una parete. Con la testa abbandonata di lato mi fissava come se mi stesse aspettando. Quando mi avvicinai alzò la mano del lato verso cui scendeva il capo, e iniziò ad accarezzarmi sulla testa. Mi guardava, e mi accarezzava, e sentivo che qualcosa accadeva. Il movimento regolare della mano liberava dolcemente il tempo, facendolo muovere per la prima volta. Riuscii a scorgere la fine della pausa, e a tornare a tempo in classe. Iniziai ad andare ogni giorno nella stanza, e sempre ritrovai il miracolo che permetteva alle ore di scorrere, a me di crescere, alle persone di vedersi.
Le feste si collocarono in un fluire oggettivo, così che il giorno della recita riconobbi che era Natale. Seguendo il percorso la trovai come le altre volte, e aveva appena iniziato ad accarezzarmi quando la mano si sollevò, e per la prima volta alzai la testa. Gli occhi grandi e vicini mi abbracciavano, mentre le dita che avevano ordinato gli anni della mia vita entravano nella vestaglia a cercare qualcosa. Quando ne uscirono stringevano una fotografia sbiadita, dalla quale un ragazzo vestito da soldato porgeva un sorriso che non aveva più. Rialzai la testa mentre gli occhi le si chiudevano in una carezza.
Ci fu un suono leggero, la foto non c’era più. Capii che la mano non si sarebbe posata ancora, quindi mi girai e uscii dalla stanza, sapendo che non sarei più tornata.
Roma, 31/12/2022